VERSO LA REGOLAMENTAZIONE DEI GREEN CLAIMS

La Direttiva del Parlamento europeo e Consiglio Ue 2024/825/Ue è entrata in vigore dal 26 marzo 2024 e sarà operativa dal 2026.

“Responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione.”

Ormai lo sappiamo, con il termine greenwashing si intende la strategia commerciale utilizzata da alcune aziende per dare un’immagine “verde” alla propria filiera produttiva in termini di ridotto/assente impatto ambientale. Tuttavia il fenomeno, già da anni sotto i riflettori, è stato oggetto solo recentemente di attenzione da parte del Legislatore Europeo che con la direttiva 2024/825/Ue, l’ha inserito esplicitamente tra le pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori.

Dal 28 febbraio 2024 la direttiva 2024/825/Ue (intervenendo sulla direttiva 2005/29/Ce sulle pratiche commerciali sleali) ha allargato il campo delle ipotesi vietate anche alle asserzioni ambientali ingannevoli.

LA DIRETTIVA 2005/29/CE SULLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI

La modifica riguarda la Direttiva – 2005/29 – EN – EUR-Lex (europa.eu), che tutela i consumatori dalle pratiche commerciali sleali poste in essere dai professionisti (cd. Lex generalis in materia di tutela dei consumatori) e che si applica alle pratiche commerciali di natura volontaria tra imprese e consumatori poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto (articolo 3).

Ad oggi, ai sensi dell’articolo 5 della direttiva, costituiscono pratiche commerciali sleali, e sono dunque vietate, le pratiche:

  • contrarie alle norme di diligenza professionale
  • che falsano o sono idonee a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio.

LA DIRETTIVA 2024/825/UE

The direttiva 2024/825/Ue è intervenuta introducendo norme specifiche volte a contrastare in modo più pregnante le pratiche commerciali sleali fondate su asserzioni ambientali ingannevoli. Pratiche, queste ultime, fino ad oggi non esplicitamente incluse nell’elenco delle pratiche vietate, ma di fatto ad esse riconducibili. La Commissione europea infatti, nei suoi orientamenti del 2021 sull’interpretazione della direttiva 2005/29/Ce, aveva già chiarito l’applicabilità delle disposizioni in parola anche ai cd. “claim ambientali”.

COS’È UN’ ASSERZIONE AMBIENTALE?

Per asserzione ambientale, ai sensi del nuovo articolo 2 della direttiva2005/29/Ce, si intende, nel contesto di una comunicazione commerciale, qualsiasi messaggio o rappresentazione non obbligatoria, in qualsiasi forma (compresi i marchi), che asserisce o implica che un dato prodotto, categoria di prodotto, marca o operatore economico:

– abbia un impatto positivo o nullo sull’ambiente, oppure;

– sia meno dannoso rispetto ad altri;

or

– abbia migliorato il proprio impatto nel corso del tempo.

TIPOLOGIE DI GREENWASHING

La direttiva 2024/825/Ue introduce nella direttiva 2005/29/Ce delle specifiche tipologie di pratiche commerciali sleali che possono costituire greenwashing:

A) Pratiche commerciali ingannevoli (secondo una valutazione caso per caso) ex articoli 6 e7 , direttiva 2005/29/Ce     

  • pratiche che ingannano il consumatore sulle caratteristiche ambientali del prodotto;
  • pratiche che ingannano il consumatore sugli aspetti relativi alla circolarità, quali la durabilità, la riparabilità o la riciclabilità del prodotto;
  • asserzioni ambientali relative a prestazioni ambientali future non accompagnate da impegni “chiari, oggettivi, pubblicamente disponibili e verificabili stabiliti in un piano di attuazione dettagliato e realistico che includa obiettivi misurabili e con scadenze precise”;
  • pubblicizzazione come vantaggi per i consumatori di elementi irrilevanti che non derivano dalle caratteristiche del prodotto o dell’impresa;
  • omesse informazioni, da parte dell’operatore economico che fornisce un servizio di raffronto tra prodotti e comunica al consumatore le relative caratteristiche ambientali e gli aspetti relativi alla circolarità, sul metodo di raffronto, sui prodotti raffrontati, sui fornitori e sulle misure predisposte per tenere aggiornate le informazioni.

B) Pratiche commerciali considerate in ogni caso sleali ex Allegato I, direttiva 2005/29/Ce

  • esibizione di marchi di sostenibilità che non siano basati su un sistema di certificazione o non stabiliti da  Autorità pubbliche;
  • asserzioni basate sulla compensazione delle emissioni di gas a effetto serra che sostengono che un prodotto ha un impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente in termini di emissioni di gas a effetto serra, inducendo il consumatore alla falsa impressione che il consumo del prodotto non abbia alcun impatto ambientale (come “neutrale dal punto di vista climatico”, “positivo in termini di emissioni di carbonio” oppure “a zero emissioni nette per il clima”);        
  • asserzioni ambientali generiche e vaghe per le quali non sia dimostrabile l’eccellente prestazione ambientale del prodotto (tra queste espressioni quali: “rispettosi dell’ambiente”, “eco” o “verdi”, che erroneamente suggeriscono o danno l’impressione di prestazioni ambientali eccellenti);
  • asserzioni ambientali concernenti il prodotto nel suo complesso o l’attività dell’operatore economico nel suo complesso quando in realtà riguardano solo un aspetto del prodotto e un elemento dell’attività;
  • presentare requisiti imposti per legge come fossero un tratto distintivo dell’offerta dell’operatore economico;  
  • non informare il consumatore del fatto che un dato aggiornamento del software inciderà negativamente sul funzionamento di beni che comprendono elementi digitali;
  • presentare come necessario un aggiornamento del software che si limita a migliorare alcune caratteristiche di funzionalità;
  • qualsiasi comunicazione commerciale relativa a un bene contenente una caratteristica introdotta per limitarne la durabilità, nonostante le informazioni sulla caratteristica e sui suoi effetti sulla durabilità del bene siano a disposizione dell’operatore economico;
  • asserire falsamente che, in condizioni d’uso normali, il bene presenta una determinata durabilità;
  • presentare il bene come riparabile quando in realtà non lo è;
  • indurre il consumatore a sostituire o reintegrare materiali di consumo del bene prima di quanto sarebbe necessario per motivi tecnici;
  • non informare che la funzionalità di un bene sarà compromessa dall’utilizzo di materiali di consumo, pezzi di ricambio o accessori non forniti dal produttore originale o asserire falsamente che la funzionalità del bene sarà compromessa dall’utilizzo di pezzi di ricambio non originali.

RIPARABILITA’ DEI PRODOTTI

Sempre con riferimento alla durabilità dei prodotti, la direttiva 2024/825/Ue apporta modifiche anche alla direttiva 2011/83/Ue sui diritti dei consumatori, prevedendo:

  • che gli operatori economici forniscano, prima della conclusione del contratto con il consumatore, anche l’indice di riparabilità del bene se stabilito a livello Ue, altrimenti dovendo comunque garantire al consumatore le altre informazioni sulla riparazione messe a disposizione dal produttore;
  • l’introduzione della cd. “etichetta armonizzata” che l’operatore economico dovrà essere tenuto ad apporre sul bene che beneficia di una garanzia commerciale di durabilità offerta dal produttore senza costi aggiuntivi per un periodo superiore a due anni. L’etichetta dovrà essere esposta in modo visibile e utilizzata in modo da consentire al consumatore di identificare facilmente il bene specifico che beneficia di tale garanzia (per esempio apponendo l’etichetta direttamente sull’imballaggio). L’etichetta potrà essere apposta sul bene anche direttamente dal produttore che offre la garanzia.

Per evitare di indurre il consumatore in confusione, la direttiva prevede che l’etichetta armonizzata ricordi in ogni l’esistenza della garanzia legale di conformità, la garanzia che tutela il consumatore dall’acquisto di prodotti difettosi e che ha una durata di due anni.

NORMATIVA NAZIONALE

Attualmente a livello nazionale manca una normativa ad hoc sul greenwashing.

Anche in questo caso, però, disposizioni già in vigore utili a far emergere ed arginare il fenomeno del greenwashing possono comunque essere individuate in diversi provvedimenti, qui di seguito indicati.

  • Codice del consumo: centrale in materia è il Dlgs 206/05 – (cd. Codice del consumo)  attuativo, per come modificato dal Dlgs146/2007, della direttiva 2005/29/Ce sulle pratiche commerciali sleali.
  • Codice civile: l’articolo 2598 del Codice civile  in cui sono elencati gli atti che integrano ipotesi di concorrenza sleale.
  • Le regole sulle società benefit: la legge 208/2015 (“Legge di stabilità 2016”) promuove la costituzione e la diffusione di società benefit, società che perseguono una o più finalità di “beneficio comune” e che operano in modo responsabile, trasparente e sostenibile nei confronti, tra gli altri, di territori e ambiente e di beni e attività culturali e sociali. La società benefit, in caso di mancato perseguimento delle finalità di beneficio comune indicate nell’oggetto sociale, è soggetta alle disposizioni in tema di pubblicità ingannevole di cui al Dlgs 145/2007  e al Dlgs 206/05 – (cd. Codice del consumo) .

L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA

Tra i provvedimenti indirettamente connessi alla tematica in esame anche il Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale dell’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria (Iap).

Il Codice definisce le caratteristiche delle comunicazioni commerciali volte a dichiarare o evocare benefici di carattere ambientale o ecologico. Ai sensi dell’articolo 12 “la comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”. Tale disposizione, come si vedrà nel paragrafo che segue, è stata utilizzata dal Tribunale di Gorizia (ordinanza del 25 novembre 2021) per ritenere integrata nella vicenda processuale un’ipotesi di greenwashing.

Rileggi il nostro articolo CONDANNA PER FALSI “GREEN CLAIMS” | LCA Ambiente (lca-ambiente.com)

LA GIURISPRUDENZA

Con ordinanza 25 novembre 2021 il Tribunale di Gorizia si è pronunciato in materia di greenwashing. Una delle poche pronunce, per ora, sul punto.

Nella fattispecie si contestava a una società dedita alla realizzazione di tessuti destinati al settore automobilistico la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli idonei a integrare un’ipotesi di greenwashing.

Il Tribunale, nel pronunciarsi sul ricorso, ha ripercorso innanzitutto il contesto normativo di riferimento richiamando la definizione di pubblicità ingannevole contenuta nel Dlgs 145/2007 e la disciplina contenuta nel cd. Codice Iap. Provvedimenti dai quali discende la necessità che l’impresa utilizzi “dichiarazioni ambientali ‘verdi’ che siano chiare, veritiere, accurate e non fuorvianti, basate sudati scientifici presentati in modo comprensibile”.

Premesso ciò, i Giudici hanno precisato che nella specie i messaggi pubblicitari denunciati erano “sicuramente molto generici” e idonei a creare nel consumatore un’immagine green dell’azienda, “senza peraltro dar conto effettivamente di quali siano le politiche aziendali che consentono un maggior rispetto dell’ambiente e riducano fattivamente l’impatto che la produzione e la commercializzazione di un tessuto di derivazione petrolifera possano determinare in senso positivo sull’ambiente e sul suo rispetto”.

Ragioni per le quali il Tribunale ha inibito alla società la diffusione dei messaggi pubblicitari ingannevoli e ogni altra informazione non verificabile sul contenuto del materiale utilizzato per la produzione di uno dei prodotti in commercio.

Di rilievo anche la sentenza del Consiglio di Stato1960/2017 con cui i Giudici si sono pronunciati sulla legittimità di alcuni claim pubblicitari diffusi da un’azienda per prospettare ai consumatori la compatibilità ambientale di una nuova linea di bottiglie di plastica (tramite l’utilizzo di termini come “eco-friendly”).

Richiamata la normativa europea sulle pratiche commerciali scorrette e, in particolare, sulla diffusione di asserzioni ambientali non veritiere (cd. “greenwashing“), il Consiglio di Stato ha confermato nella specie la legittimità del provvedimento con cui l’Antitrust aveva vietato l’utilizzo ulteriore dei messaggi pubblicitari. E ciò perché la società non aveva prodotto idonea documentazione che attestasse «con precedenza rispetto al loro utilizzo pubblicitario» l’attendibilità e veridicità dei messaggi. La richiesta di certificazione a un Ente terzo sulla asserita diminuzione di plastica utilizzata per la produzione delle bottiglie era stata infatti oggetto di istanza da parte dell’azienda solo successivamente all’avvio del procedimento istruttorio dell’Autorità.

Il Collegio ha rilevato inoltre nella fattispecie l’incongruenza di alcuni dati forniti dalla società sul quantitativo di plastica risparmiato, dati che non si riferivano al periodo temporale oggetto di studi indicato nel messaggio pubblicitario (“dal 1983”), ma a un arco temporale successivo ed inferiore.

Rileggi il nostro articolo CONDANNA PER FALSI “GREEN CLAIMS” | LCA Ambiente (lca-ambiente.com)

I PROVVEDIMENTI IN CORSO DI APPROVAZIONE

E’ attualmente al vaglio delle Istituzioni Ue una proposta di direttiva che si pone l’obiettivo di regolamentare le asserzioni ambientali volontarie delle imprese di vulgate nell’ambito delle pratiche commerciali con i consumatori, al fine di fronteggiare la problematica del greenwashing e la diffusione di marchi ambientali inattendibili.

Si tratta della proposta di direttiva sulle autodichiarazioni ambientali delle imprese (cd. Direttiva Green Claims) sulla quale il Parlamento ha adottato la propria posizione il 12 marzo 2024 e che passerà all’esame del nuovo Parlamento dopo le elezioni che si terranno nel giugno 2024.

CAMPO DI APPLICAZIONE DIRETTIVA GREEN CLAIMS

La proposta di direttiva è intesa espressamente come “lex specialis” contro il greenwashing rispetto alla direttiva 2005/29/Ce sulla tutela dei consumatori, che invece rappresenta la lex generalis in materia.

Come la direttiva del 2005, la “lex specialis” si applicherà a tutte le pratiche commerciali di natura volontaria tra imprese e consumatori poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto.

In particolare, essa si applica alle asserzioni ambientali esplicite formulate dai professionisti[1] riguardo a un prodotto nell’ambito delle pratiche commerciali[2] intraprese con i consumatori.

La proposta di direttiva non si applica invece ai sistemi di etichettatura ambientale e alle asserzioni ambientali esplicite – compresi i marchi – già attualmente oggetto di specifica disciplina Ue (come le asserzioni basate sul marchio Ecolabel Ue).

LA DEFINIZIONE DI ASSERZIONE AMBIENTALE

La proposta contiene la definizione di asserzione ambientale esplicita e rinvia, per la definizione di asserzione ambientale, a quella contenuta nella proposta di direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori:

  • asserzione ambientale: qualsiasi messaggio o rappresentazione avente carattere non obbligatorio in qualsiasi forma (compresi i marchi) che asserisce che un dato prodotto/marca/operatore economico ha un impatto positivo o nullo sull’ambiente o è meno dannoso di altri o ha migliorato il proprio impatto nel corso del tempo (articolo 2, comma 1, lettera o), direttiva 2005/29/Ce;
  • asserzione ambientale esplicita: l’asserzione ambientale in forma testuale o riportata in un marchio ambientale.

NUOVI OBBLIGHI PER LE DICHIARAZIONI AMBIENTALI 1/2

Al fine di garantire che i consumatori dispongano di informazioni attendibili, comparabili e verificabili, che consentano loro di prendere decisioni più ecosostenibili, la proposta introduce dunque specifici obblighi in capo alle imprese.

In particolare, la proposta prevede l’introduzione dei seguenti obblighi:

  • obbligo di “attestazione” delle asserzioni ambientali: l’impresa dovrà dunque dimostrare, sulla base di prove scientifiche “ampiamente riconosciute”, la veridicità della dichiarazione ambientale (articolo 3). Come si legge nel preambolo della bozza di direttiva l’attestazione “dovrebbe tradursi in informazioni al consumatore attendibili, trasparenti, comparabili e verificabili” che consentano di individuare gli impatti ambientali rilevanti del prodotto lungo l’intero ciclo di vita ovvero di determinare se gli asseriti miglioramenti degli impatti ambientali implicano al contempo compromessi (ad esempio se i consumi di acqua comportano anche un aumento delle emissioni di gas serra) (articolo 3);
  • obbligo di “attestazione” delle asserzioni  ambientali comparative che dichiarano che un prodotto ha un impatto ambientale minore o prestazioni ambientali migliori rispetto ad altri: l’impresa dovrà rispettare una serie di criteri per dimostrare la veridicità dell’asserzione comparativa (tra cui l’aver utilizzato dati equivalenti per la valutazione degli impatti) (articolo 4);
  • obbligo di comunicare le asserzioni ambientali conformemente ai criteri indicati nell’articolo 5, per esempio mettendo a disposizione del consumatore, tramite link o codice Qr, gli studi utilizzati per valutare e misurare gli impatti ambientali oggetto dell’asserzione e il certificato di conformità rilasciato da un verificatore terzo (articolo 5);
  • obbligo di riesame delle informazioni utilizzate per attestare la veridicità delle dichiarazioni laddove si verifichino circostanze che possono incidere sull’esattezza dell’asserzione (e in ogni caso entro cinque anni dalla data in cui sono state fornite le informazioni) (articolo 9);
  • obblighi di verifica e certificazione, da parte di organismi terzi accreditati a livello Ue, delle attestazioni e delle comunicazioni delle imprese sulle dichiarazioni ambientali volontarie, compresi i marchi (articolo 10).

I MARCHI

Tra le asserzioni ambientali esplicite vi sono infatti anche i marchi ambientali, là dove comportano una comunicazione al consumatore che suggerisce o dà l’impressione che il prodotto abbia un impatto positivo o nullo sull’ambiente. Mentre alcuni marchi ambientali, tra cui l’Ecolabel Ue, vantano basi scientifiche, richiedono prove e verifiche da parte di terzi e prevedono un monitoraggio periodico, ve ne sono tanti altri, nel panorama europeo attuale, che risultano ingannevoli.

La proposta intende dunque intervenire contro la proliferazione di marchi ambientali inattendibili e prescrive a tal fine che anche i marchi siano sottoposti agli obblighi di certificazione previsti per le asserzioni ambientali “testuali”. Con conseguente divieto dei marchi ambientali “autocertificati” che non prevedano alcuna verifica da parte di terzi.

La proposta prevede inoltre una serie di prescrizioni che i sistemi di etichettatura ambientale dovranno seguire per poter continuare a rilasciare i marchi ambientali nel mercato Ue. E al contempo vieta l’istituzione di nuovi sistemi di etichettatura ambientale nazionali o regionali, legittimando di conseguenza solo sistemi di etichettatura ambientale a norma del diritto dell’Unione.

LE SANZIONI PREVISTE

Il provvedimento impone infine agli Stati di introdurre un adeguato sistema sanzionatorio per la violazione degli obblighi, che comprenda:

  • ammende che privino i responsabili dei benefici economici derivanti dalle violazioni;
  • confisca dei proventi derivanti da transazioni che abbiano ad oggetti prodotti destinatari di asserzioni ambientali non conformi;
  • esclusione temporanea dagli appalti e finanziamenti pubblici.

[1] professionista: qualsiasi persona fisica o giuridica che agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisce in nome o per suo conto

[2] pratica commerciale: qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale (compresi pubblicità emarketing) posta in essere da un professionista e direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori.